Mi ritengo una persona di buon senso. Nell’approccio ai problemi sul tavolo politico non nutro ostilità preconcetta verso le risposte che provengono dai miei “avversari”, né do giudizi apodittici. La teoria degli anti-“comunisti” m’indispone : si può avere ragione anche se si sfila sotto la bandiera progressista. Succede di rado, dico maliziosamente e partigianamente, ma succede. Ancor meno affascinante reputo la logica manicheista. Per me Gianni Vernetti, per fare qualche esempio pratico, è una persona squisita (e rappresenta l’icona della sinistra che mi piace), Pietro Ichino è la massima autorità sulle questioni del lavoro, Franco De Benedetti è un uomo per bene.
Tutto questo balletto, questo can can in punta di piedi, è utile ai fini di un’analisi completa sulla corsa al Quirinale.
Il centro-sinistra ha vinto, sulla carta, le elezioni. Ne prendo atto e riconosco a Prodi il diritto di governare. Esiste però una cosa che si chiama “analisi politica”, che trascende i dati e guarda al Paese. Se fotografiamo lo stivale, infatti, ci rendiamo immediatamente conto della drammaticità della situazione: usciamo da una campagna elettorale infuocata, alimentata da reciproci colpi bassi, con un Paese perfettamente diviso in due eguali metà contrapposte. Berlusconi, forse sbagliando, poche ore dopo il verdetto delle urne, aveva parlato di Grossa Coalizione. Un’ipotesi in quel momento impraticabile : come avrebbero reagito gli elettori di centro-sinistra (che, per anni, hanno creduto alla panzana del regime), se avessero visto i propri leaders firmare un accordo con l’odiato Cavaliere? E gli elettori del Caimano non si sarebbero sentiti ingannati nel trovarsi di fronte all’asse Arcore-Scandiano? L’idea è così naufragata nel mare della politica italiana, forse un po’ troppo celermente.
Il centro-sinistra, per parte sua, adottando la tattica dello spoil system, ha blindato le prime votazioni elettorali, e per uscire dall’impasse ha imposto i presidenti di Camera e Senato. Legittimo, anche se politicamente la mossa si è rivelata sconveniente. Lunedì però iniziano le votazioni per il Quirinale e la presidenza della Repubblica ha tradizionalmente un’altra storia. L’istituzione è ontologicamente super partes : non abbiamo bisogno di eroi, di Giovanni Gronchi o di Oscar Luigi Scalfaro vari. Sulla scena occorre una figura dotata di uno spessore equidistante, che sappia far proprie le viscere del Paese, senza gettarsi in compromessi di qualsivoglia natura politica. Serve, insomma, un altro Carlo Azeglio Ciampi, qualcuno che si richiami alla Patria senza apparire stucchevole od opportunista.
In queste ore il nome che circola maggiormente negli ambienti dotti e nei “salotti bene” è quello di Massimo D’Alema, già presidente dei Democratici di Sinistra, ossia del principale partito della coalizione governativa. Questo ruolo che l’ex presidente del Consiglio ricopre non costituisce, di per sé, un ostacolo nella sua ascesa al Colle (noi tutti ricordiamo il Saragat del Quirinale, che incarnava perfettamente il Partito Social Democratico Italiano al potere), ma inibisce fortemente gli elettori e gli eletti stessi della Casa delle Libertà, ossia metà del Paese. Diciannove milioni di italiani che, ricordando gli ultimi botti di un’infuocata campagna elettorale, sentono ora puzza di “inciucio”. Termine orripilante, bandito dal politically correct, che in politica non dovrebbe trovare cittadinanza, poiché la mediazione talvolta è indispensabile. La candidatura di D’Alema, tuttavia, contribuirebbe ad acuire le distanze esistenti tra gli inputs del popolo italiano e gli outputs che la classe dirigente (non) riesce ad elaborare. Suvvia, non prendiamoci in giro : D’Alema è il volto noto della sinistra nostrana, è la personalità che spicca maggiormente all’interno dell’Unione, il migliore sia per doti dialettiche che per lungimiranza politica. E’ un merito, un onore, ma in questo caso si rivela una colpa, un onere. Paradossalmente l’essere palesemente riconducibile ad una delle parti impegnate nell’agone, brucia le probabilità e le speranze del giovane promettente Massimo (a meno che non si voglia procedere nuovamente con altri colpi di spugna…).
Qualcuno potrebbe chiedermi di fare i nomi, di uscire dall’empirico e di avanzare qualche proposta. Non spetta a me il compito di indicare aspiranti presidenti, mi limito ad analizzare i motivi per cui taluni non dovrebbero candidarsi. Se proprio dovessi fare un nome, farei quello di Gianni Letta, e non per ragioni di bottega : l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio è stimato trasversalmente, è una persona che ha un alto senso delle istituzioni e non è mai stato candidato in nessun partito, né risulta abbia tessere di movimenti politici in tasca. Meglio di così?